Alessia La Villa, vive e lavora a Livorno. Laureata in Scienze dell’ Educazione e specializzata in Marketing e Comunicazione del No Profit. Da circa quindici anni lavora come Funzionario Giuridico Pedagogico per l’Amministrazione Penitenziaria. Si è occupata di progetti legati alla genitorialità. Autrice di racconti, questo è il suo primo libro di cui è coautrice insieme a Leandro Vanni.
“Metà giardino, metà galera. Le parole del carcere nella musica italiana” nasce dalla volontà di raccontare il carcere e i suoi protagonisti utilizzando uno strumento evocativo e ad altro impatto emotivo come solo la musica sa essere.
Se si prova a chiedere a qualcuno: Qual è la prima canzone che ti viene in mente sentendo la parola carcere? la maggior parte risponde: Don Raffaè oppure quella del caffè o ancora quella di De André senza riuscire in effetti a contestualizzare questo brano che, seppur scritto negli anni Novanta, e ancora di un’attualità disarmante. Pochissimi sanno infatti che in realtà De André, di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario della morte, aveva appena vent’anni quando scrive una struggente ballata dedicata al tema del suicidio in carcere. E come lui tantissimi altri che dagli anni Cinquanta ad oggi hanno deciso di dare una voce sonora al carcere.
Per scelta metodologica abbiamo deciso di non inserire le canzoni di contestazione politica che seppur rappresentano un valido documento storiografico costituiscono un filone a sé. Non mancano tuttavia nel testo alcune canzoni che vanno necessariamente ascoltate e contestualizzate rispetto al periodo in cui sono state scritte. Penso ad esempio al brano di Claudio Lolli “Dalle capre” oppure al concept album di Gianni Siviero del 1975 dedicato interamente al carcere.
Questo saggio è rivolto a tutti quelli che hanno voglia di uscire dalla loro metà giardino per affacciarsi oltre il muro della metà galera e scoprire che può essere altrettanto “feconda” ma solo a patto di saperla concimare.
Come?? Non girandosi dall’altra parte, investendo su quell’essere umano capace di infinito bene ma anche di infinito male come scriveva Dostoevskij, ritenendosi sempre tutti coinvolti.
Mi piace tuttavia immaginare che questo libro possa essere amato e ascoltato anche dai giovani che nel ripercorrere quella Storia con la s maiuscola sappiano trovare parole che parlano anche di loro: penso ai tanti Cerutti Gino che affollano le nostre periferie, ai ragazzi rinchiusi nelle carceri minorili a quelli che, come canta Daniele Silvestri, sono Argentovivo ma troppo spesso rinchiusi in gabbie e prigioni mentali da parte di chi li vorrebbe “diversi”.
Io sono una Vecchioniana da una vita e credo tantissimo nella capacità trasformativa delle parole soprattutto se legate alla musica ecco perché penso che leggere e ascoltare questo libro possa aprire davvero nuovi spazi di riflessione e di condivisione su temi importanti che come ho già detto riguardano tutti anche chi in carcere non entrerà mai.
Il nostro saggio a differenza di molti lavori presenta una “non conclusione” proprio perché penso che sia un nostro dovere morale non mettere mai la parola fine alla metà galera. E’ un testo che sarà sempre in divenire, come mi auguro, a cui si potrà aggiungere sempre qualcosa.
Spero quindi che questo saggio, piccola goccia nel mare, riesca ad uscire dai muri di cinta ed entrare nelle aule scolastiche, nei dibattiti, in tutti quei posti dove si scegli di restituire voce e dignità a chi sembra averla perduta perché come cantava Guccini “solo l’ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte.”
Purtroppo, in questi anni ho imparato a mie spese che il carcere è un posto che spesso vive di luoghi comuni che investono tutti: da chi è ospite a chi ci lavora. La difficoltà è proprio nella narrazione, nella scelta delle parole da utilizzare per raccontare questo luogo così complesso. Ancora oggi, ad esempio, quando si parla del corpo di polizia penitenzia, corpo specializzato che lavora nelle carceri, si parla di “guardie” o “secondini” quasi a non voler vedere tutto quello che è accaduto dagli anni del “brigadiere Pasquale Cafiero” ad oggi.
Anche il mio lavoro di educatrice, o meglio di Funzionario Giuridico Pedagogico all’interno delle carceri, rimane sconosciuto ai più ed è incredibile se si pensa che la mission della “rieducazione” è presente nell’ art 27 comma tre del nostro ordinamento costituzionale.